giovedì 5 giugno 2008

Launeddas, canne di nessun campanile - «Non i Comuni ma l'Isola deve ritenersi depositaria della tradizione».

Nessun campanilismo può rinchiudere nei confini di un paese la musica delle launeddas. Quel sospiro che sprigiona dalle canne palustri non ha steccati. Non può averne. Come confini non ha, la musica intera. Universale, assoluta: dunque libera. Oltre i campanilismi. E allora non è, non può essere Quartu, la patria delle launeddas. Neppure Villaputzu o Muravera, Pirri o Cagliari. Né lo sono Cabras, Samatzai, Ortaceus, San Vito. E poco importa che questi luoghi abbiano dato i natali ai grandi, ai maestri del suono “col fiato continuo”. «C'è una sola patria per le launeddas: la Sardegna». Ne è così convinto, Tonino Leoni, di questa sua verità, da aver aggiunto, nel coniare il nome dell'associazione “Sonus de Canna” fondata nel 1988 con un gruppo di musicisti, anche la definizione di intercomunale. «Un concetto per ribadire il carattere aperto, regionale e non municipale di questa cultura così antica». Dice di non aver spirito polemico, Tonino Leoni. Ma non lesina critiche quando legge, sente parlare di launeddas, non risparmia stoccate. E nel calderone degli errori ci mette un po' tutti. Cronisti compresi. «Capisco la sintesi giornalistica, ma continuare a scrivere che questo o quel paese sono la patria delle launeddas è una baggianata che non fa bene alla verità. Se poi fanno lo stesso amministratori pubblici e assessori come è accaduto di recente a Quartu e Villaputzu, allora si rischia di far del male alla nostra cultura, a noi stessi». Sa bene, Tonino Leoni, che diverse regioni della Sardegna, come il Sarrabus o la Trexenta, hanno regalato alla storia suonatori illustri. Magari più di altre zone dell'Isola. Come Samatzai, dov'è lui stesso è nato, e dove è nato anche uno dei più grandi, quel Dionigi Burranca che volle con forza la nascita di “Sonus de Canna” e che fu il suo maestro. «Ma bisogna sfatare il mito», dice. «Basta leggere il Casalis per apprendere che sino alla prima metà dell'Ottocento, bravissimi suonatori vivevano e operavano in gran parte della Sardegna. È comunque vero che esiste una macroarea del Campidano che ha poi favorito lo sviluppo delle cosiddette scuole».
I PAESI - Un'area vasta, insomma, ben più estesa di quanto non lo siano, lo possano essere i paesi, le cittadine diventate “patria” per volere di qualche amministratore comunale. «Tale atteggiamento», dice Tonino Leoni, «oltreché pretestuoso denota anche una mancanza di rispetto nei confronti di tutti i bravi suonatori di launeddas scomparsi, fossero essi di Quartu o Villaputzu, di Sinnai o Ussana, Samatzai o Samassi o Cabras. La capitale la si può trovare dovunque le launeddas vengano accolte e valorizzate. La tradizione orale ci racconta che tra i suonatori esisteva un forte competizione. Vero, ma era una rivalità per la conquista delle migliori piazze, per accreditarsi una festa, anche un funerale. E avveniva comunque nel rispetto della genialità, nel riconoscimento tra suonatori del valore dei contendenti. Aveva, insomma, un senso. Solo Ussana, agli inizi del 1800, contava su una ventina di suonatori. Ben altra cosa è la contrapposizione tra Comuni che oggi non ha ragion d'essere».
I SUONATORI - Giuannicu Cabras, Efisio Melis, Antonio Lara e Emanuele Lara, Felicino Pili e Aurelio Porcu hanno fatto grande Villaputzu e il Sarrabus. Come Peppi Sanna e il figlio Francischeddu, e Giuseppe Figus e Dionigi Buranca hanno fatto altrettanto con la Trexenta, il Campidano. Come Giovanni Mele e Giovanni Casu, Felice Pili l'Oristanese. E ancora Giovanni Lai e Franziscu Castangia, Pasquale Erriu. «Nomi che sono il nostro passato, come Orlando Mascia, Sergio Lecis, Bruno Loi, Paolo Zicca, Bruno Camedda, Antonello Ghiani, al di là e tanti altri rappresentano il nostro presente», dice il presidente di Sonus de Canna, che alle launeddas (strumento che ha comunque suonato, Leoni, «grazie alle lezioni di Burranca») ha preferito chitarra e organetto, «nonostante il mio maestro, tziu Dionigi, avrebbe voluto che continuassi».
L'ANIMA - Dunque la Sardegna. E una musica che non può essere rinchiusa da campanilismi di maniera. Un suono che è l'anima stessa del popolo sardo, creata da tre canne palustri lavorate ad arte per essere trasformate in tumbu , mancosa e mancosedda . Capaci di vibrare quando l'aria vi penetra all'interno, spinta e mai interrotta dal soffio potente di un mantice fatto di polmoni, guance, diaframma e genialità. Un suono antico, di tremila anni e passa anni, raccontato da quel bronzetto votivo itifallico di epoca nuragica risalente all'VII-IX secolo avanti Cristo (rinvenuto a Ittiri) rappresentante una figura maschile intenta a suonare uno strumento composto da tre canne. Ma c'era anche il bassorilievo delle catacombe di Sant'Antioco che descrive un Gesù pastore mentre suona uno strumento a canna doppia, così come l'altro bassorilievo del sedicesimo secolo della chiesa di San Bachisio a Bolotana e il suonatore. Opere ritrovate, scoperte e salvate, arrivate ai giorni nostri per descrivere, confermare la lunga, interminabile storia delle launeddas e della loro esistenza da un capo all'altro della Sardegna. Di un'isola intera che non ha mai rinchiuso il soffio della sua musica antica.
[tratto da: L'UNIONE SARDA - Cultura e istruzione, 02/03/08; scritto da ANDREA PIRAS].
P.S._La foto a destra ritrae Efisio Cadoni, mentre quella a sinistra ritrae Tomaso Martis; entrambi ussanesi, sono stati tra i più validi suonatori di Launeddas del Campidano.

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