venerdì 17 luglio 2009

Eni e Governo, «prima c'è l'isola» Pisanu e la sveglia a Cappellacci. Soru: «Dimissioni, poi negoziato» contro le promesse di Berlusconi.

Lì un aeroporto bloccato per tre ore, dalle 6 alle 9. Qui una seduta straordinaria del Consiglio regionale, con Giunta regionale, parlamentari, sindacati, università, parti sociali. Lì, ad Alghero, scalo di Fertilia, l'azione concreta di 500 lavoratori: «Ci scusiamo per i disagi ai viaggiatori, ma quello che viviamo noi è un disagio ben più grande». Qui, a Cagliari, palazzo di via Roma, tante belle parole ma niente di più: su tutte «unità». Per ora di intenti, il seguito è tutto da vedere. Due mondi che più lontani oggi non potrebbero sembrare: quello del lavoro, con gli operai a difendere il proprio posto, e quello della politica, che quel posto dovrebbe garantirlo. Eppure il nesso c'è: è quell'Eni, multinazionale dal profitto di svariati milioni di euro, che ha deciso di chiudere gli stabilimenti di Porto Torres per, dicono, due mesi. Senza prevedere la manutenzione degli impianti: fatto che presuppone una serrata ben più lunga, con tutte le conseguenze del caso per l'economia della Sardegna. L'Eni, quindi il Governo che del colosso detiene oltre il 30 per cento delle azioni.
Se quelle parole avranno un senso dipenderà soprattutto da Roma. Due gli appuntamenti fondamentali: il primo è il tavolo Governo-Regione in programma domani, con undici ministri da una parte e le massime istituzioni sarde dall'altra; il secondo è quello fissato per martedì, con la convocazione del ministro Claudio Scajola del tavolo nazionale sulla chimica: quello dove Eni dovrà dire cosa intende fare del comparto nell'isola ma anche nel resto del paese. Passati gli impegni del G8 in Abruzzo - altro scippo alla Sardegna - è stato Silvio Berlusconi in persona a garantire che «l'Eni non chiuderà»: ma sulle promesse-rassicurazioni del Cavaliere, dalla campagna elettorale in poi, non ci si può fare troppo affidamento.
Sembrano averlo capito anche nel centrodestra. Davanti alla crisi dell'isola, che non è solo quella di Porto Torres, servono fatti concreti e non semplici proclami: li elenca, uno per uno, il capogruppo del Pd Mario Bruno. Dall'altra parte c'è la chiamata «alle armi» del capogruppo del Pdl Mario Diana. C'è il governatore Ugo Cappellacci, da sempre ossequioso nei confronti dell'azione del premier, che alza la testa: chiama in causa il governo, è la seconda volta in pochi giorni, per un «immediato intervento per il ritiro della decisione dell'Eni di fermare l'impianto cracking di Porto Torres e l'inserimento nel tavolo nazionale sulla chimica dei problemi, ugualmente importanti, delle industrie energivore e delle energie rinnovabili».
Annunci che dovranno essere seguiti dai fatti. Lo sottolinea l'ex ministro e attuale presidente della Commissione antimafia Beppe Pisanu, mica l'ultimo arrivato: «Dobbiamo essere uniti nel chiedere sostegno al governo, che ha responsabilità preminenti sul futuro della chimica nazionale, quindi della chimica sarda e degli altri settori produttivi dell'isola. Questa richiesta va affidata nel confronto istituzionale al presidente Cappellacci, al quale chiediamo di andare avanti con determinazione fino al punto, se sarà necessario, di contestare quel governo nazionale che pure è espressione della sua e nostra parte politica. Prima viene la Sardegna».
Non è un caso che, poco prima, l'ex presidente Renato Soru chiami Cappellacci «presidente della Sardegna». Non della Regione, ed è una differenza non da poco: rappresentante di tutti i sardi, non di una parte sola. L'intervento dell'ex governatore non è per nulla tenero: «Siamo tutti uniti contro lo smantellamento dell'industria. Ma ci sono ruoli, competenze e responsabilità diverse. E se quanto sta succedendo oggi fosse accaduto due anni fa con Soru presidente della Regione e Prodi presidente del Consiglio? L'opposizione ci avrebbe inchiodato alle nostre responsabilità. Cosa diranno Berlusconi e Scajola di cio' di cui abbiamo parlato oggi? Qui c'è stata una campagna elettorale in cui Berlusconi ha bloccato il centro di Cagliari per telefonare a Putin dalla prefettura. C'è una crisi industriale che dicevate di poter risolvere in pochi mesi, con Putin, Scajola e altri: e allora risolvetela». Con una scappatoia offerta al suo successore: «Lei ha fatto campagna elettorale con queste promesse. Le do un consiglio sommesso: se crede che questa sia la sua battaglia si dimetta, perché lei è stato eletto con queste promesse, e inizi una trattative nelle settimane di raffreddamento. E vediamo se Berlusconi mantiene le promesse o se era tutto un inganno. Rimettiamo tutto in discussione: io non sarò parte in causa».
Vedere e rilanciare, in sostanza. Ma al contrario: se Eni ha usato Porto Torres come grimaldello per ottenere passaggi favorevoli nel decreto anti-crisi, e lo scudo fiscale approvato era uno di questi, ora sia Cappellacci a mettere il Governo centrale alle strette. Per vedere quanto Berlusconi tenga davvero all'isola che definiva la sua seconda patria. Alle dimissioni, il governatore non ci pensa proprio. Va a Roma consapevole del fatto che «non stiamo decidendo delle fortune di una parte politica a discapito di un'altra, ma del futuro di un popolo: del futuro del nostro popolo». Parole, ancora: per i fatti si vedrà.

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